Alzheimer senza sintomi, ricercatori olandesi individuano 12 casi

Alzheimer senza sintomi - ricercatori olandesi individuano 12 casi

Uno studio condotto da ricercatori olandesi, pubblicato il 25 aprile2024, rivela l’esistenza di un gruppo di persone con evidenze cerebrali di Alzheimer, ma senza alcun sintomo clinico.

Lo studio ha individuato un sottogruppo di persone con evidenze cerebrali di Alzheimer senza sintomi, classificati come “resilienti”.

L’invecchiamento è un processo individuale, influenzato da genetica, stile di vita e ambiente. Alcuni individui raggiungono i 90 o addirittura i 100 anni in buona salute, senza farmaci o malattie cerebrali. Ma come riescono a mantenere una tale salute?

Un team di ricerca coordinato da Luuk de Vries del gruppo di Joost Verhaagen, in collaborazione con Dick Swaab e Inge Huitinga, ha analizzato campioni cerebrali della Netherlands Brain Bank. Questa biobanca olandese conserva tessuto cerebrale di oltre 5.000 donatori deceduti, affetti da una vasta gamma di malattie neurodegenerative. La particolarità della Netherlands Brain Bank è che, oltre al tessuto cerebrale con diagnosi neuropatologiche precise, custodisce anche la storia medica completa e l’evoluzione dettagliata della malattia di ogni donatore, compresi i sintomi.

Un gruppo resiliente

Lo studio ha individuato un sottogruppo di persone con evidenze cerebrali di Alzheimer, ma che non mostravano alcun sintomo clinico in vita, classificati come “resilienti”. Come è possibile che non abbiano mai sperimentato alcun disturbo cognitivo?

“Non comprendevamo ancora a livello molecolare e cellulare cosa accadesse in queste persone”, spiega Luuk de Vries. “Abbiamo quindi cercato nella Brain Bank donatori con alterazioni cerebrali ma senza declino cognitivo. Abbiamo trovato solo 12 casi, è quindi un fenomeno piuttosto raro. Pensiamo che genetica e stile di vita giochino un ruolo chiave nella resilienza, ma il meccanismo esatto è ancora sconosciuto”.

Stimolare mente e corpo

“L’attività fisica, l’esercizio cognitivo e una vita sociale attiva possono aiutare a ritardare l’insorgenza dell’Alzheimer”, continua de Vries. “Studi recenti suggeriscono che anche una stimolazione cognitiva intensa, come quella associata a lavori complessi, possa portare ad un accumulo maggiore di patologie legate all’Alzheimer prima che si sviluppino i sintomi. Se riuscissimo a identificare le basi molecolari della resilienza, avremmo nuovi punti di partenza per lo sviluppo di farmaci che possano attivare processi simili nei pazienti con Alzheimer”.

Confronto tra Alzheimer e gruppo resiliente

“Analizzando l’espressione genica, abbiamo osservato alterazioni in diversi processi nel gruppo resiliente. In primo luogo, gli astrociti sembravano produrre più metallotioneina, un antiossidante. Gli astrociti funzionano come spazzini del cervello e svolgono un ruolo protettivo. Spesso richiedono l’aiuto della microglia, ma queste cellule, pur potendo essere aggressive, a volte peggiorano l’infiammazione. Nel gruppo resiliente, un pathway della microglia spesso associato all’Alzheimer è risultato meno attivo. Inoltre, la unfolded protein response, un meccanismo cerebrale che elimina automaticamente alcune proteine tossiche (le misfolded toxic protein), era compromessa nei pazienti con Alzheimer, ma relativamente normale negli individui resilienti. Infine, abbiamo trovato indicazioni che suggeriscono una presenza potenzialmente maggiore di mitocondri nelle cellule cerebrali degli individui resilienti, a garanzia di una migliore produzione di energia”.

Tuttavia, il significato di queste differenze nei processi cellulari rimane da chiarire. “Stabilire dai dati umani quale processo innesca la malattia è difficile”, conclude de Vries. “Si può dimostrare solo modificando qualcosa nelle cellule o nei modelli animali e osservando gli effetti. Questo è il nostro prossimo passo”.